Il pallido dio delle colline

Saggi e narrazioni

Il pallido dio delle colline

Un'appassionata escursione
attraverso i territori occupati
- The New Yorker -

Sette camminate, sette sarhat condotte sul filo della storia e della memoria in un territorio, quello della Palestina, che sembra destinato a sgretolarsi e scomparire giorno dopo giorno sotto l'assedio delle armi, del cemento e dei coloni israeliani. Questa è la materia del racconto del nuovo libro della Biblioteca di Ulisse, Il pallido dio delle colline, scritto dall'avvocato e attivista palestinese Raja Shehadeh.

Ispirata da un'attività tutto sommato quotidiana come il camminare, la scrittura di Shehadeh orienta il lettore verso un orizzonte ben più ampio e inatteso. Più che sulla descrizione del paesaggio, infatti, lo sguardo si focalizza sull'evoluzione rapida, drammatica e inesorabile dello scenario umano. Lo scenario in cui vivono i palestinesi, sempre meno liberi e sempre più prigionieri nella propria terra.

La Palestina che scompare

Dai villaggi della Cisgiordania a Gerusalemme, da Ramallah al Mar Morto, Shehadeh compie un'escursione nello spazio ma anche nel tempo. Il libro, infatti, copre un arco di circa tre decenni, dal 1979 alla prima decade del nuovo millennio.

Questi anni densi di cambiamenti e di eventi drammatici sono perfettamente assorbiti e descritti dalla narrazione. Come un partigiano Johnny mediorientale, Shehadeh compie il proprio viaggio iniziatico attraverso uno scenario che passo dopo passo, pagina dopo pagina, si colora di tinte drammatiche e si popola dei fantasmi sempre più reali della guerra e di una resistenza che pare destinata allo scacco.

Le prime camminate sono occasione di una presa di contatto pacifica con il territorio degli avi, la Palestina-madre coltivata ad olivi e resa familiare dal lavoro degli uomini. Terrazzamenti e antichi monasteri, vallate fiorite e sacre fonti sono i compagni reali e simbolici di un viaggio che, nei passi come sulla carta, assomiglia a una vera e propria fusione lirica con la natura.

A poco a poco, tuttavia, nel paesaggio affiorano gli scogli drammatici dello scontro combattuto con le armi e con la politica da israeliani e palestinesi. La terra pacifica diventa quasi un campo di battaglia punteggiato dal filo spinato e dai muri della divisione tra i due popoli. Una divisione che la politica internazionale ha contribuito per certi versi a legittimare. Come con gli Accordi di Oslo del 1993, con i quali la possibilità per i palestinesi di accedere alle colline intorno a Ramallah finì sotto il controllo dei soldati israeliani.

Nelle ultime sarhat, così, ci si accorge che la terra-madre palestinese si è ormai trasformata in uno spazio ostile: i sentieri sono prossimi a sparire, cancellati dagli insediamenti israeliani e dalle ruspe che spianano le colline, e il grembo accogliente della Palestina assomiglia sempre più a una piana desolata e sterile.

Il senso di pericolo che deriva da questo processo è il leitmotiv dall'ultima camminata, la settima. I passi di Shehadeh, che questa volta si trova in compagnia di un’amica inglese, sono bruscamente interrotti da due giovani militanti che chiedono loro i documenti, li fotografano e li fanno sentire in imminente pericolo di morte, così come sarebbe potuto accadere a un posto di blocco militare israeliano. Un segnale allarmante che l'autore colloca proprio al termine della narrazione: l'avversione di una patria per i propri figli è forse il peggior sintomo dell'ostilità che avanza.