Il talento di non fare né poesia né musica

Il talento di non fare né poesia né musica

Un estratto della Prefazione di Guido Paduano, che dell'opera è anche autore, ci guida alla lettura di TuttoVerdi.

 

Per definire l’oggetto di questo libro, partirò dalle parole che Verdi scriveva ad Antonio Ghislanzoni, librettista di Aida, per scusarsi delle pesanti richieste di modifica: «Pur troppo per il teatro è necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia né musica». Così il maestro superava di slancio la diatriba secolare per il reciproco predominio di parole o musica nell’opera lirica, diatriba che ancora doveva attendere molti decenni per maturare un capolavoro metalinguistico nel Capriccio di Richard Strauss.

Oggi teniamo per dimostrato che ogni testo teatrale scritto, anche il più illustre, anche Eschilo o Shakespeare, è un canovaccio, un’impalcatura provvisoria che arriva a compimento soltanto nella performance, grazie alla magica miscela dei fattori stabili della creatività e di quelli transeunti e variabili. Tanto maggiore è l’aleatorietà del libretto d’opera, che raggiunge il livello assestato della testualità – soggetto, come negli altri generi teatrali, alla ristrutturazione performativa – solo dopo essere stato invaso e travolto dall’impero della musica. È il linguaggio musicale che stabilisce la gerarchia delle parole, e dunque il loro valore e il loro senso, sia secondo le proprie norme codificate che secondo le proprie scelte innovative; che spoglia le parole della loro funzionalità sia attraverso un difetto che un eccesso di attenzione, smorzandole in un amalgama indistinto o focalizzandole nell’indugio ossessivo della ripetizione (o trattandole secondo una delle infinite modalità intermedie).

Una valutazione autonoma della «poesia» dei libretti è dunque perfettamente impropria – e di conseguenza è gratuito il discredito di cui sono spesso investiti. Autonoma però non è neppure la musica: i processi cui accennavo non hanno per risultante un flusso sonoro che faccia della vocalità una pura articolazione virtuosistica – come se fosse solo uno strumento dotato di maggiori risorse – bensì un regime comunicativo in cui il testo musicale è il significante di significati che gli sono esterni, secondo il patto fondante del melodramma, rinnovato nella cura che ogni grande compositore ha dedicato a ogni singolo libretto.

Posto che questi significati non risiedono, come abbiamo visto, nella labilità della dizione librettistica, devono essere cercati in un’entità che essa non esprime, ma si limita a indicare, a suggerire, ad affidare al discorso musicale perché se ne assuma la responsabilità espressiva: chiamo questa entità col nome di «situazione», parola che Verdi usa nella medesima lettera a Ghislanzoni, quando introduce il celebre concetto della parola scenica, «che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione». L’uso di «situazione» come termine tecnico degli studi sul teatro è anticipato con la medesima felicità con cui attraverso la «parola scenica» è anticipato il riconoscimento della specificità della letteratura teatrale.