Intervista a John Mauceri

Intervista a John Mauceri

La grande lezione di Bernstein. Quando politica, filosofia e vita nutrono la musica. A cura di Sergio Bestente

Poche personalità hanno saputo incarnare in maniera così completa la forza e le contraddizioni dell'ambiente artistico e musicale del ventesimo secolo quanto Leonard Bernstein. Divo del podio, compositore prodigioso, animale da palcoscenico e grande seduttore, uomo dalla vita pubblica e privata intensa quanto controversa, Bernstein ha lasciato dietro di seé un'enorme mole di testimonianze artistiche e biografiche, eppure sembra ancora sfuggire a ogni tentativo di comprensione a tutto tondo. Fra tutte le tessere di questo puzzle che non si lascia comporre, una in particolare è sempre stata molto dibattuta: il suo pensiero politico e filosofico. È l'argomento della prima novità di questo numero di Leggìo, un libro che ha già fatto molto discutere: Leonard Bernstein. Vita politica di un musicista americano, di Barry Seldes.

È per aiutarci a entrare in questa complessa e sfuggente materia che abbiamo interpellato John Mauceri. Nato a New York nel 1945, Mauceri ha ricoperto molti prestigiosi incarichi in tutto il mondo (compreso un triennio italiano come direttore stabile del Teatro Regio di Torino), e ha frequentato tanto le grandi orchestre quanto Broadway e Hollywood; è stato uno degli allievi e collaboratori più stretti di Bernstein per un lungo e importante periodo, oltre ad averne curato editorialmente numerose partiture. Non è dunque senza un filo di commozione che ne rievoca la grande lezione: "Abbiamo lavorato insieme per diciotto anni: ho cominciato come suo assistente, per diventare poi curatore della sua musica, e ho diretto quasi tutte le sue composizioni a partire dalla metà degli anni Settanta fino alla sua morte, nel 1990".

 

Quale pensa che sia l'eredità che Bernstein ha lasciato al mondo musicale?
È sempre molto difficile parlare di queste cose, e in particolare nel caso di Bernstein perché lui è stato al tempo stesso un compositore, un interprete e un maestro, e quindi la sua eredità va ripartita fra questi diversi aspetti. Se si parla della sua musica, il punto centrale rimarrà sempre West Side Story, e tutto intorno si possono trovare molti altri lavori importanti, sempre molto connessi al suo punto di vista politico, o forse sarebbe meglio dire fi losofi co, della vita. Come musicista è stato senza dubbio uno dei grandi direttori d'orchestra del ventesimo secolo, ma è stato prima di tutto un grande maestro, poicheé considerava le sue esecuzioni come un modo di spiegare, di portare alla luce che cosa veramente fosse la musica che stava dirigendo. Karajan, per esempio, non era affatto interessato a chiarire, a risolvere il mistero della musica; anzi amava il mistero, e nel suo modo di fare musica si trova sempre un certo grado di ambiguità. Bernstein cercava il modo migliore per dimostrare, per fare capire, e in questo senso le sue scelte musicali erano quelle di un pedagogo. Lavorava moltissimo con i giovani, e ci sono migliaia di ragazzi e ragazze che hanno studiato o suonato con lui: è grazie a loro che questa eredità è tuttora così viva nel mondo.

 

Ha mai parlato con lui di politica?
Non era tanto di politica che parlavamo, quanto del comportamento delle persone, di etica. Era qualcosa che stava alla base di tutto quello che diceva o faceva: voleva un mondo migliore, voleva che il comportamento delle persone rispecchiasse il progresso della civiltà. Per questo quando assisteva a eventi politici o sociali drammatici ne rimaneva molto coinvolto: gli chiedevo se non si era abituato, col tempo, ma lui rispondeva che al contrario si sentiva sempre più indignato.

 

Dunque più filosofia che politica.
Le due cose andavano di pari passo. Se pensiamo agli eventi che accaddero nel periodo del maccartismo - le liste nere, la caccia alle streghe e tutto il resto - la questione era molto complicata; non erano cose di cui amassi parlare con lui, e non voglio essere superfi ciale. Era stato un periodo estremamente diffi cile della storia americana: da un lato Bernstein era molto coinvolto con le questioni legate ai diritti umani e civili, ma dall'altro lato era un uomo che aveva una carriera. Per esempio, quando scrisse la colonna sonora di Fronte del porto, lo fece in sostituzione di un altro compositore, Alex North, che si era esposto politicamente ed era stato inserito nella lista nera. Non gli ho mai chiesto percheé avesse accettato di sostituire un uomo escluso per la sua attività politica; penso che Bernstein fosse un essere umano: aveva delle convinzioni politiche e si confrontava con una realtà complessa, facendo delle scelte. Abbiamo invece parlato qualche volta del grande coreografo Jerome Robbins, che aveva testimoniato contro i suoi colleghi di fronte alla famigerata Commissione McCarthy; eppure Bernstein amava Robbins, e decise di lavorare ugualmente con lui. Potrei dire che era anche un uomo capace di dimenticare.

 

Quali tracce pensa che abbia lasciato tutto questo nella sua opera?
Penso che nella musica composta su un testo letterario, le sue convinzioni si mostrino sempre con grande evidenza: la disponibilità al perdono, la comprensione umana, la volontà di inclusione, e molto altro: si pensi a opere come A Quiet Place. Il tema di Candide è quello dell'accettazione della realtà per quello che è veramente, in opposizione all'ipocrisia di tante visioni politiche, filosofiche e religiose. Quello che dice Candide, alla fine, è che non potremo mai essere veramente puri, diventare quello che noi vorremmo o altri vorrebbero, ma che siamo quello che siamo, e dobbiamo essere capaci di amarci l'un l'altro per come siamo. In fondo anche West Side Story parla di questo, e così anche le composizioni sinfoniche. Potrei dire che dietro il suo impegno concreto ci fossero delle idee profonde ma forse anche un po' naïve.

 

Quanto hanno influenzato la sua carriera, queste idee?
Molto. La sua vita personale, il suo stile, le sue convinzioni: tutto questo per molti era difficile da capire, persino scioccante. Cosa che d'altronde a lui piaceva, perché amava essere scioccante. Nelle cose che diceva e nei suoi comportamenti pubblici era sempre sorprendente, e talvolta si potrebbe dire "inappropriato". Da un lato amava frequentare la società più elegante, dall'altro riusciva spesso a mostrarsi inaccettabile, cosa che costringeva chi gli stava vicino a dover gestire situazioni imbarazzanti. è un suo aspetto che non ho mai capito del tutto: quello che so è che era un uomo che cercava di vivere la vita nella maniera più completa possibile, e questo per molti era inaccettabile; ma penso che questo tipo di inaccettabilità fosse proprio quello che cercava, fosse la sua forma di "avanguardia".

 

Che cosa pensa dunque della famosa definizione che per lui coniò Tom Wolfe: radical-chic?
Beh, direi che è servita soprattutto al successo di Wolfe. Un modo elegante di commettere un omicidio attraverso due semplici parole, una deliziosa menzogna che si attacca alla pelle.

 

Pensa che ci siano questioni del presente da cui Bernstein, se fosse vivo si sentirebbe coinvolto?
Sì. Credo che sarebbe molto coinvolto dal problema israelopalestinese, e più in generale dal modo in cui il mondo islamico è oggi rappresentato. Sicuramente lo sarebbe dalla questione dei diritti civili delle persone omosessuali. Ma è difficile rispondere a domande come questa, che mi riportano agli anni in cui ho lavorato con lui, a quello che ero e a quello che sono. Ho visto Bernstein per l'ultima volta pochi giorni prima della sua morte, e so che avrebbe voluto passare ciò che gli restava da vivere insegnando. Oggi fra le altre cose sono rettore onorario della University of North Carolina School of the Arts, una scuola interamente dedicata alla musica, alla danza, al teatro e alla scenografi a. Ha 1100 studenti, tutti fra gli 11 e i 22 anni: so che se Lenny fosse vivo amerebbe questo posto più di ogni altro al mondo, e credo che la scelta di restituire a questi ragazzi qualcosa di quello che ho avuto sia il modo più giusto di pensare la sua eredità.