Un tedesco tra i tupinamba. La storia di Hans Staden

Saggi e narrazioni

Un tedesco tra i tupinamba. La storia di Hans Staden

L’arrivo di Cristoforo Colombo in America ha aperto una fase tra le più sconvolgenti nella storia dell’umanità. È davvero difficile sopravvalutare la portata che la scoperta e l’impatto con l’”altro” rappresentato dagli indigeni hanno avuto sulla civiltà europea, per non parlare del prezzo immane che è costata a quelle americane.

Tra i molti che lasciarono testimonianze scritte di quell’incontro estremo ed esemplare figura Hans Staden, nato intorno al 1525 nell’Assia tedesca. Di lui non si sa quasi nulla al di là delle vicende legate ai due viaggi che intraprese oltremare. Nel corso del secondo, sul finire del 1553, venne catturato dalla tribù di antropofagi dei tupinamba, che viveva in un villaggio nella baia di Mangaritiba, non lontano da Rio de Janeiro. La sua sorte pareva segnata, ma riuscì inaspettatamente a sopravvivere e a rientrare in patria, dove raccontò la propria esperienza in un libro che riscosse da subito uno strepitoso successo. EDT lo ha pubblicato nel 1991, con il titolo La mia prigionia fra i cannibali, e ora lo ripropone nella collana Ancore.

Staden appartiene alla terza generazione di cronisti della conquista. La prima, osserva nell’Introduzione il curatore dell’edizione italiana Amerigo Guadagnini, «si era imbattuta in qualcosa di mai visto e aveva potuto stabilire soltanto un contatto precario con una realtà che sfuggiva agli schemi e ai dogmi tradizionali». La seconda aveva già conoscenze e strumenti per delineare contorni più precisi dell’alterità, la terza «ha ormai la mente aperta a qualsiasi nuova informazione, raccoglie dati precisi, distingue con cura fra una popolazione indigena e l’altra».

Staden rientra in pieno in questo terzo genere di narratore. Senza strumenti e cognizioni, del resto, sarebbe quasi certamente morto poco dopo la cattura. La sua buona conoscenza della lingua tupi, parlata dai suoi catturatori, gli permise invece di farsi ascoltare: gli indigeni odiavano i portoghesi e risparmiarono Staden soprattutto perché questi riuscì a convincerli di essere un tedesco amico dei francesi, con cui i tupinamba avevano invece buoni rapporti.

Proprio il problema della lingua segna una profonda differenza tra le generazioni di cronisti alle quali si è fatto cenno sopra. Cristoforo Colombo non possedeva alcuna sensibilità linguistica, il che lo escluse dalla comunicazione con i nativi, che considerò da subito come non-umani. L’atteggiamento di Hernàn Cortés, conquistatore del Messico e distruttore dell’impero azteco, era già molto diverso: Cortés studiò l’universo indigeno, ne comprese molti aspetti e lo manipolò a proprio vantaggio; attuò dunque perlomeno un tentativo di comunicazione interumana, laddove Colombo era in grado di entrare in contatto soltanto con il mondo inanimato.

Staden è invece un attentissimo osservatore di uomini, delle forme sociali e delle tecniche che gli indigeni applicano alla vita quotidiana. Svolge insomma uno straordinario lavoro da etnografo, che spicca per acutezza e obbiettività. Ne è un esempio il breve estratto che segue, in cui l’autore spiega come gli indigeni producono la bevanda che tracannano fino a ubriacarsi. Oltre al processo di preparazione Staden annota gli aspetti rituali, come le feste che si tengono nei villaggi, le pratiche comunitarie in uso tra gli indigeni e la generosità che caratterizza le loro relazioni.