Il viaggio prima della scrittura

Il viaggio prima della scrittura

Col suo stile magistrale, misto di ironia anglosassone e precisione descrittiva, Norman Lewis ci introduce alla lettura del suo libro. E racconta, in modo limpido e autentico, come la sua produzione letteraria si sia sempre nutrita dalle grandi esperienze fatte viaggiando in giro per il mondo.

Il viaggio è venuto prima della scrittura. C’è stato un momento in cui pensavo che quanto desideravo dalla vita fosse unicamente la possibilità di rimanere un eterno spettatore di mutevoli scenari. Gestivo la mia magra riserva di denaro in modo da potermi il più possibile abbandonare a questa mia mania e carico di un’incantevole ignoranza me ne andavo all’estero su treni di terza classe, corriere di campagna, a piedi, in canoa, su carrette dei mari e sambuchi indiani.

I miei viaggi cominciarono con la Spagna, dove agli inizi degli anni Trenta per l’equivalente di uno scellino una fonda o riva una cella senza finestre e un austero pasto a base di pane, salame e vino; quando Pedro Flores Atocha, ultimo dei pittoreschi banditi d’Andalusia, riceveva nel suo covo montano la prima delle dive del cinema spagnolo e a volte capitava di vedere una foto di Lenin, o del torero Belmonte, laddove più tardi ci sarebbe stato un ritratto del generale Franco. In questo paese, all’epoca relativamente incorruttibile, dove bastava lasciare la strada principale per sprofondare all’istante nel passato preistorico dell’Europa, ho trascorso – ripartiti in più viaggi – all’incirca tre anni in tutto e, ancora oggi, ogni volta che posso ci vado per fuggire dall’insipidezza dei tempi moderni, sebbene la Spagna di un tempo tuttora sopravviva soltanto in alcune parti piuttosto inaccessibili dell’interno.

Dopo la Spagna toccò all’africano meridione [meridionale (sic) in italiano nel testo, N.d.T.] d’Italia, ai Balcani, al Mar Rosso e all’Arabia meridionale – sul sambuco, trenta tonnellate, senza ponte, equipaggio di cinque persone e niente lancia di salvataggio: averne una avrebbe empiamente messo in dubbio la divina provvidenza – poi toccò al Messico, al Nord Africa, a tre inverni in Estremo Oriente, e quindi il Centro America, l’Africa equatoriale e le zone meno battute del Sud America: il Brasile amazzonico, le savane di Venezuela, Bolivia e Paraguay. All’inizio credevo nel semplice e puro viaggiare, e che fosse necessario non aver mai un intento. Arrivavo, restavo un po’ a guardare e nel momento in cui il mio stupore prendeva a scemare e le mie suggestioni a smorzarsi, passavo oltre.

Quando cominciai a scrivere probabilmente fu, almeno in parte, per tentare di catturare qualcosa dell’essenza di quelle esperienze, delle immagini che continuavano a sfuggire, sbiadire, dissolversi, involarsi. Scoprii poi che la disciplina della scrittura mi costringeva a vedere oltre, a penetrare ancora più a fondo per meglio comprendere e per disfarmi un po’ della mia ignoranza. Più tardi ancora, cominciai a intessere nei miei romanzi gli sfondi e gli eventi di quei miei viaggi, e adesso, guardando ai mutamenti avvenuti negli anni, mi chiedo se sarei ancora capace di godermi il viaggiare per il solo gusto di farlo.

 

Un'idea del mondo, Norman Lewis © EDT 2016