In cerca del "Nino numero due"

In cerca del "Nino numero due"

Poliedrico e mutevole come tutti i veri artisti, Nino Rota spiazzò molti suoi contemporanei, compresi i più accorti e avveduti come i musicologi Fedele D'Amico e Massimo Mila. Questo estratto del contributo di Emilio Sala al volume collettivo Nino Rota. Un timido protagonista del Novecento musicale contiene alcuni elementi utili a comprendere l'oscillazione nel giudizio dei critici contemporanei al Maestro.

 

Massimo Mila, recensendo Il cappello di paglia di Firenze nel 1956, dopo aver sottolineato che, quando scrive delle opere, Rota «dimentica d’essere un uomo del suo tempo, e scrive spartiti operistici in stile ottocentesco», rievoca appunto la prima dell’Ariodante:

Negli ambienti musicali si favoleggia ancora adesso il lieto sbalordimento a cui andò incontro il pubblico di Parma, questa roccaforte del melodramma tradizionale, quando nel 1942 fu chiamato ad ascoltare, al Regio, la prima assoluta d’un’opera nuova di giovane compositore, e precisamente l’Ariodante. Ci andarono pieni di diffidenza, aspettandosi chissà che astruseria, ed ascoltarono un’opera fatta di arie e recitativi, cabalette, duetti, concertati, con i debiti acuti di tenori e soprani. Chiamarono fuori l’autore, e quando videro ch’era un ragazzino, mancò poco che lo portarono in trionfo.

In realtà nel 1942 Rota era ormai – più che un «ragazzino» – un giovanotto, ma se quello del pubblico fu un «lieto sbalordimento» non altrettanto lieta fu la sorpresa dei critici musicali, e soprattutto di quelli che spalleggiavano il compositore sollecitandolo però in una direzione evolutiva e inventiva, non retrospettiva e camaleontica.

Fra questi Fedele D’Amico, un rotiano della prim’ora che, recensendo Aladino e la lampada magica (1968), avrebbe dato uno dei contributi più significativi alla famosa teoria dell’“inattualità” dell’autore del Cappello di paglia di Firenze. Anche se qui vale molto più la modernità che non l’inattualità di Rota, il richiamo a D’Amico è importante perché, da quanto si evince in un’importante e lunga lettera da lui spedita a Ernesta Rinaldi (la madre di Nino), la tendenza al pastiche, vale a dire l’achitrave (probabilmente) del modus operandi del compositore (almeno dopo l’Ariodante), suscitò forti perplessità se non una vera e propria irritazione nel critico musicale a lui più vicino, nonché marito di Suso Cecchi, figlia di Emilio Cecchi e futura librettista dei Due timidi. Vale la pena di leggere almeno il passo centrale di questa missiva che dunque Lele D’Amico spedì da Arosa (dove era ricoverato in sanatorio), il 30 aprile 1946, alla madre di Nino che gli aveva scritto per annunciargli il compimento del Cappello di paglia di Firenze.

Lei s’immagina due cose che non sono esatte: la prima è che io (con tanti altri amici) ammiri le “idee” di Nino e disapprovi le sue armonie tradizionali. La seconda è che noi desidereremmo vedere Nino scrivere come Schönberg, o Casella, o Dallapiccola. La verità è che di Nini non ne esiste uno, ma due: uno, numero uno, che ha scritto la sonata per flauto e arpa, il quintetto, la prima sinfonia, eccetera; un altro, numero due, che ha scritto Ariodante, Zazà, il Birichino di papà, eccetera. Ora […] noi non chiediamo a Nino di scrivere come Casella, bensì chiediamo di scrivere come Nino Rota numero uno. Il quale non usa nessun linguaggio (armonico o melodico) tradizionale, ma semplicemente il suo personale linguaggio: e ce ne lascia un ricordo poetico, un ricordo autentico di cosa vera, inventata, reale. Invece il Nino numero due fa semplicemente un mestiere, con più o meno bravura: il mestiere di “rifare” le musiche altrui. Certe volte questo è necessario (vedi il caso di Zazà, magnificamente riuscito): ma è necessario a un certo fine pratico; cionondimeno è chiaro che si tratta di rifacimenti, di “falsi”, più o meno deliziosamente fatti. Ariodante è una collezione di falsi, da Donizetti a Francesco Paolo Tosti e a Cilea; a che cosa serva, Dio solo lo sa. (Non certo a far quattrini, perché a dispetto dell’abilità con cui è scritta, è difficile imbrogliarci qualcosa di più che il pubblico parmigiano).

Oggi a noi (o perlomeno a me) appare abbastanza evidente che il «Nino numero due» – ammesso che si possa accettare l’opposizione proposta da D’Amico – sia molto più importante e soprattutto più “moderno” del «Nino numero uno». Ammainando la bandiera dell’originalità, il Rota dell’Ariodante, del Cappello di paglia di Firenze, dei Due Timidi (ecc.) si abbandonò al flusso senza telos della soggettività moderna che non crede più all’unità dell’Io e «che subisce la storia» (per citare ancora una volta Morelli). Fu così che, rifacendo le musiche altrui (rinunciando alla ricerca del «suo personale linguaggio»), «Nino numero due» (ri)trovò se stesso.