Intervista a Emanuele Arciuli

Intervista a Emanuele Arciuli

Un enorme senso di libertà. Intervista a Emanuele Arciuli a cura di Sergio Bestente.

Il pianoforte, la libertà espressiva, il rapporto con l'improvvisazione, le intermittenze della memoria musicale. Sono i quattro elementi che, in una miscela a diluizioni differenziate, si ripresentano in tutte le pagine di questo numero di Leggìo. I confini della saggistica musicale si allargano, seguendo a volte strade meno ordinate rispetto alla tradizionale divisione monografia storica/biografia critica, e per questo il catalogo EDT si arricchisce di una nuova collana, chiamata Contrappunti, che tenta di rispecchiare questa rinnovata libertà di scrittura musicologica, pur mantenendo come bussola irrinunciabile il valore e la serietà delle scelte editoriali. Molti altri argomenti si aggiungeranno, perché sull'immenso patrimonio della musica d'arte di ogni tempo e latitudine non si smetta di riflettere e discutere.

Il primo libro della nuova serie cerca di illuminare una parte spesso tenuta in ombra dalla programmazione delle nostre istituzioni musicali, e lo fa attraverso la voce di un pianista attento e sensibile, che veste i panni di musicologo senza nascondere il suo essere radicato nella pratica esecutiva. A Emanuele Arciuli chiediamo dunque, prima di tutto, di raccontarci come è nato il suo legame con la musica americana:

«Tutto è cominciato andando a suonare per il festival Music X di Cincinnati, rassegna che ho frequentato tutti gli anni dal 1998 al 2008: lentamente ho cominciato a entrare in contatto con i compositori americani, giovani e meno giovani, a conoscerli sempre meglio e a sentir crescere la curiosità e l'interesse reciproco. Si tratta di passioni che con il tempo si autoalimentano, e ti portano a cercare sempre nuovi compositori, nuove opere, a creare innumerevoli occasioni di incontro, e ciò si trasforma nello stimolo a mettere in cantiere ulteriori esperienze. Insomma, mi sono trovato sempre più dentro questo mondo, e mi ci sono trovato sempre meglio».

Forse però la prima domanda avrebbe dovuto essere: ritiene che esista qualcosa che può essere definito 'musica americana'?
«Pochi giorni fa ho letto un'intervista a John Adams, che risponde alle domande dell'intervistatore ma a un certo punto si ferma e dice: "ma in fondo, io non so se esista veramente una musica americana". Potrà sembrare strano, ma secondo me esiste una musica americana nella misura in cui qualcuno continua a porsi una domanda come questa: una domanda che noi europei, con le nostre granitiche certezze, non ci faremmo mai per la nostra musica. La musica americana esiste proprio nel suo continuo interrogarsi, confrontarsi e creare rapporti con musiche 'altre', spesso diversissime».

Se dovesse indicare, oltre al confronto, una caratteristica che accomuna il repertorio americano?
«Prima di tutto un'intelligentissima indagine sulla dimensione del tempo e sul rapporto che esiste tra tempo e ritmo, entità che in questo repertorio dialogano ma non coincidono. È un'indagine che si sente nella musica minimalista di Reich e Adams per ovvie ragioni, ma che si ritrova anche in Elliott Carter, quanto di più lontano dal minimalismo si possa immaginare; e che si trova nel jazz, che amo molto, come nella musica di Gershwin, Bernstein, e in quella di compositori che non hanno particolare interesse per il ritmo come pulsazione quanto come contenitore di energia, per esempio John Luther Adams. Ma un'altra caratteristica è quella dei colori delle armonie. Il jazz ha arricchito la musica nel Novecento più di qualsiasi altro mondo sonoro, e penso che la sua concezione armonica sia un aspetto fondamentale della fisionomia della musica americana. Anche in questo caso, questa visione dell'armonia e del colore si ritrova dappertutto nella musica degli Stati Uniti, al di là delle differenze anche profondissime che sussistono fra i diversi compositori».

Una musica diversa che però nasce da un ceppo comune.
«È difficile oggi separare le storie della musica; fino a sessanta, cento anni fa forse lo era meno. La musica americana è nata da una costola della musica europea, ma poi si è sviluppata sino a rappresentare un arricchimento vasto e originale; tuttavia, se essa oggi ha una sua impronta molto riconoscibile, tenderei comunque ancora a leggerla come parte della cosiddetta western music, la musica occidentale. Con una vistosa caratteristica: per vari motivi - soprattutto perché per molti compositori di ogni parte del mondo gli Stati Uniti sono spesso diventati un approdo importante - la musica americana risuona delle altre culture: negli Usa, per esempio, puoi trovare compositori molto noti come il cambogiano Chinary Ung ma anche moltissimi cinesi, africani, australiani. In Europa di solito la tendenza è quella di addomesticare in qualche modo tali voci europeizzandole: lì invece rimane sempre uno sguardo curioso, e sembra quasi che sia l'America ad adattarsi a queste presenze, e non viceversa. Ma ci sono anche musicisti completamente americani che sono diventati virtuosi di strumenti vietnamiti, coreani e via dicendo, oppure molti hanno studiato le percussioni africane, da Derek Bermel, a John Corigliano. Non si respira l'ansia di 'preservare' la propria cultura, ma una ricerca di ciò che vi è di universale nelle altre culture. Qualcuno può interpretare questa tendenza anche come un atteggiamento 'imperialistico', io invece vi colgo soprattutto il segno di una grande generosità intellettuale».

Questo per quanto riguarda l'atteggiamento verso l'esterno; e verso l'interno?
«Prima di tutto, come abbiamo detto, c'è il continuo scambio con il jazz, e prima ancora con il blues e il ragtime (influenze che passeranno all'Europa, se si pensa a compositori come Ravel e Stravinsky). La musica dei nativi americani ha naturalmente influito molto meno, poiché era legata a una popolazione che non aveva la scrittura e viveva la musica in stretta connessione con l'elemento rituale. Si è assistito a un interesse da parte di alcune correnti come quella degli Indianisti (Cadman, Farwell e altri), ma solo in tempi recenti la musica dei nativi americani ha assunto un peso consistente, perché - pur in ritardo rispetto a quanto è avvenuto nella pittura e nella letteratura - hanno incominciato ad apparire compositori importanti. Personalmente ho molto interesse per i compositori nativi, e sempre più spesso eseguo la loro musica, il più delle volte scritta appositamente per me. Ma ho in cantiere molti altri progetti su questo tema: per esempio Indian Gallery, un'idea di lavoro che mette a confronto un certo numero di compositori americani con l'arte visiva dei nativi, e che quindi connette le due anime in una sorta di simbolica pacificazione nel nome dell'arte».

E su un piano più musicale, quali sono le altre influenze importanti?
«Due su tutte, il musical e il rock. Il musical è fondamentale perché secondo me rappresenta una sorta di modello drammaturgico per molti compositori americani; qualcosa che non funziona soltanto quando scrivono per Broadway ma anche quando pensano alla musica sinfonica; per esempio, la compattezza formale della Rhapsody in Blue di Gershwin (ma anche del Concerto in Fa per pianoforte), è data non dal dominio della forma classica ma da quella del musical: in pratica una sorta di musical senza canto. Inoltre, il musical è anche una forma di vocalità tipicamente americana che in maniera diretta o indiretta informa di sé tutta la cantabilità, non soltanto quella vocale ma anche quella strumentale. Per quanto riguarda il rock, che personalmente frequento meno, compositori come Michael Daugherty, Michael Torke e molti postminimalisti ne sono fortemente interessati; ci sono compositori che scrivono musica colta e suonano in complessi rock, penso per esempio a David First che ha un gruppo che si chiama The Notekillers, o a Steve Mackey; penso anche al grande sviluppo che ha avuto in America il repertorio per chitarra elettrica».

Che cosa la spinge a continuare a indagare questa musica?
«Risponderò sinceramente: la libertà di esprimermi come interprete. In questo vastissimo mondo sonoro, composto dai più diversi stili, approcci compositivi e tipi di scrittura pianistica, paradossalmente ho trovato un denominatore comune nel senso di libertà espressiva che mi comunicava: una caratteristica che ho ritrovato anche in altri repertori, ma mai con la stessa intensità».

Ci sono ancora delle resistenze da parte delle programmazioni europee verso questo repertorio?
«Sì, e in alcuni casi anche piuttosto forti, dovute in parte a semplice ignoranza, in parte probabilmente anche alla diversità dei canoni estetici. Ma le cose stanno cambiando».

Cinque compositori senza i quali la nostra cultura non può dirsi completa...
«Beh, innanzi tutto Charles Ives; poi George Gershwin, Leonard Bernstein, John Cage e John Adams. Di questi veramente non si può fare a meno».

 

Emanuele Arciuli
Musica per pianoforte negli Stati Uniti
Collana Contrappunti | pp. 352, euro 18,00