Sulle strade dei pellegrini

Saggi e narrazioni

Sulle strade dei pellegrini

«In ultima analisi esiste un solo modo di viaggiare: a piedi».

 

Prima ancora che “viaggiare”, camminare è soprattutto “muoversi”. Parte tutto da lì, da una gamba posta avanti all’altra per centinaia di migliaia di ripetizioni. Il cammino è percezione attraverso il corpo: le caratteristiche del terreno, le pendenze, il vento, i particolari del paesaggio che non è una semplice cornice, una ambientazione, ma si fa tutt’uno con il soggetto che lo attraversa. Camminare è stabilire dei legami. Significa esistere più che funzionare.

Nel capitolo 11 di Viaggiare. Istruzioni per l’uso Ilija Trojanow si sofferma su una specifica tipologia di viaggiatore-camminatore, i pellegrini:

«I pellegrini sono viaggiatori particolari. Hanno intenzioni chiare, aneliti precisi. Il loro cammino è tracciato da secoli, talvolta da millenni. Seguono un sentiero terreno e ne sono al tempo stesso distolti. Si sentono tenuti a fare il pellegrinaggio, dal quale allo stesso tempo si aspettano l’appagamento dei loro desideri personali. I pellegrini sono la forma primigenia dei viaggiatori».

Il pellegrinaggio parte dall’assunto che esistano luoghi in cui, più che altrove, si manifesta il divino o il non-umano, e che valga la pena raggiungerli, periodicamente o almeno una volta nella vita. Testimonianze di questa attività esistono da tempi remoti in quasi tutte le religioni, dalle tre grandi monoteiste a quelle orientali. Milioni di persone sono state coinvolte in questo gigantesco cammino di purificazione e mutamento, che è apparso nella storia come una delle forze che muovono il mondo e lo rendono comune. In epoche come il Medioevo, in cui la quasi totalità della popolazione conduceva ed esauriva la propria esistenza senza allontanarsi mai dai luoghi di origine, il pellegrinaggio era un’esperienza che segnava la vita di chi decideva di intraprenderlo, un gesto di evasione, un’avventura, un momento fondamentale di scambio, di comunicazione, di civiltà.

Legati a tempi lunghi, a velocità costanti, i pellegrinaggi sembra anche attenuare le disparità economiche tra coloro che li compiono. I pellegrini hanno spesso mezzi limitati, che integrano con fortissime motivazioni e grande spirito di sacrificio.

L’aspetto che distingue il pellegrino dagli altri viaggiatori, osserva poi Trojanow, è che in un’epoca dominata dalla fascinazione per un qualche Altrove egli è esattamente nel luogo in cui vuole essere. Non sta cercando qualcosa. Al contrario, desidera lasciarsi alle spalle il dominio incontrastato del fine, la ricerca costante di un obiettivo. Certo, nei pellegrinaggi c’è sempre una meta, ma la questione davvero importante non è arrivarci:

«Lungo il Gange ci veniva spesso chiesto chi fossimo e dove stessimo andando (da quelle parti gli europei a piedi sono assai rari). Come risposta, bastava una parola: padyatra, facciamo un pellegrinaggio a piedi. La gente annuiva, era tutto chiaro. Persino altri pellegrini, sadhus per lo più, ci auguravano compiaciuti shubha yatra: “buon pellegrinaggio”. Era detto tutto».

Il pellegrinaggio, nella circostanza l’hajj dei musulmani, è centrale in un altro libro di Trojanow, Il collezionista di mondi, romanzo incentrato sulla vita di Richard Francis Burton. Diplomatico, spia, viaggiatore attratto fatalmente dai luoghi più remoti e pericolosi, nel 1853 Burton si lanciò in un’impresa, il pellegrinaggio alla Mecca e a Medina, riuscita a pochissimi non musulmani prima di lui. Il viaggio, preparato accuratamente con l’appoggio della Royal Geographical Society, lo portò dall’Inghilterra ad Alessandria d’Egitto, quindi Il Cairo, Suez, Yanbu sul Mar Rosso e infine il tratto davvero pericoloso, verso i luoghi sacri dell’Islam. Notista infaticabile, osservatore acutissimo e sagace, Burton raccolse i ricordi e le impressioni di questa incredibile avventura nel libro Personal narrative to a pilgrimage to el Medinah and Meccah, pubblicato nel 1857.