Una reporter in Iran: note su una dittatura

Saggi e narrazioni

Una reporter in Iran: note su una dittatura

Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach, desiderose di lasciarsi alle spalle l’Europa e la guerra ormai prossima, arrivano in Iran nel 1939. Le osservazioni sul regime dello Scià e su un popolo schiacciato tra disciplina e terrore.

Della dinastia Pahlavi, l’ultima a regnare sul trono iraniano prima della rivoluzione del 1978-79, hanno fatto parte due soli sovrani. Il fondatore, Reza Pahlavi, era figlio di un modesto ufficiale dell’esercito. Ambizioso, buon soldato, scalò rapidamente le gerarchie militari e politiche: comandante dell’esercito, ministro della Guerra, poi primo ministro, nel 1925 venne incoronato Scià. È ancora sul trono nel 1939, anno in cui Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach partono a bordo di una Ford alla volta dell’Asia centrale.

L’Iran in cui si muovono le due donne è un paese marziale, soffocato di disciplina, costretto all’obbedienza da un re dal piglio prussiano. Ha potenziato l’esercito, rivoluzionato i costumi, proibito le tradizioni più radicate. I militari aprono il fuoco su chi protesta, la polizia chiude i giornali di opposizione. La modernizzazione tumultuosa ha dotato il paese di strade, scuole, infrastrutture di cui c’era senza dubbio bisogno, ma il prezzo da pagare è molto alto. Dalle osservazioni di Maillart contenute ne La via crudele lo Scià emerge come una sorta di satrapo brutale, capriccioso e xenofobo, deciso a sfruttare a proprio vantaggio le ambizioni delle grandi potenze, attratte dal petrolio persiano e dalla posizione strategica del paese sullo scacchiere mediorientale.

Il Re dei Re, per cominciare, è rapace: il suo obbiettivo primario è «accumulare fortune il più rapidamente possibile; soltanto così può assicurare l’avvenire della propria dinastia e al contempo cautelarsi contro una possibile nuova rivoluzione».

Un aspetto che colpisce sono i risvolti grotteschi di molte manifestazioni del sovrano. Gli episodi del racconto di Maillart sono disperanti e finiscono per diventare quasi comici.

«Un giorno, mentre prestiamo a un autista di che riparare una foratura, ci stupiamo di vedere la sua camera ad aria costellata di rattoppi; veniamo così a sapere che in Iran gli pneumatici sono introvabili. Due mesi prima, in occasione del matrimonio del principe ereditario, lo scià aveva dato ordine di requisire tutte le automobili esistenti a Teheran. Esse furono poi puntualmente restituite ai legittimi proprietari, ma erano stati cambiati i copertoni delle ruote con altri usati all’inverosimile! La penuria di caucciù e di veicoli era tale che persino i camion dell’Anglo-Iranian Oil Company – la compagnia regina, sebbene senza corona, del paese – erano talvolta confiscati dagli ufficiali dell’esercito e “alleggeriti” di tutto quanto serviva a costoro. Di norma questa procedura si interrompeva quando il direttore dell’A.I.O.C. informava lo scià che, poiché il lavoro della compagnia era soggetto a frequenti intralci di tal genere, le percentuali spettanti allo scià sarebbero diminuite in misura proporzionale al danno subito».

Quando poi lo Scià ha in mente una grande opera, non c’è modo di dissuaderlo. Quel che è peggio, accade che si occupi anche di aspetti tecnici, come la collocazione di una galleria lungo una strada di montagna che dovrebbe collegare Teheran con le province a sud del Mar Caspio. Il punto scelto per lo scavo è esposto a valanghe periodiche che rendono impossibili i lavori e pericoloso il transito. Quando gli ingegneri gli chiedono l’autorizzazione a modificare il tracciato, il re risponde «Ho parlato e tanto basta». Non è il caso di insistere, osserva Maillart: «Per eseguire la volontà di un solo uomo seicento operai e trentaquattro tecnici europei avevano combattuto la montagna che si difendeva con crolli pericolosi, scisti stratificati, vischiose e sfuggenti zolle argillose e infiltrazioni solforose che disgregavano il cemento del tunnel. Era tutto nella norma».

Sempre incredibile, ma a questo punto forse non inaspettata, la storia che segue: «Lo scià doveva visitare un villaggio assai distante. Il sindaco che non aveva eseguito l’ordine regio di piantare degli alberi lungo la via principale pensò di rimediare mettendovi al posto rami appena tagliati. Lo scià arrivò e ripartì senza che sembrasse accorgersi della sostituzione. Una settimana dopo, inatteso come un tuono nel cielo terso, ritornò e naturalmente tutti i rami erano ormai secchi. Il sindaco fu condannato a morte per aver osato ingannare il Re dei Re». La condanna a morte è in linea con il clima di terrore instaurato da un re che «vedeva, sapeva, controllava tutto quanto succedeva nel suo paese».

Nel 1939 la parabola di Reza Pahlavi si avvia in ogni caso al termine: allarmate dalle simpatie dello Scià per la Germania hitleriana, nel 1941 sovietici e britannici occupano l’Iran e il sovrano abdica in favore del figlio Mohammad Reza.

Quarant’anni dopo un grande giornalista, Ryszard Kapuściński, ha raccolto gli appunti e i ricordi di un lungo soggiorno in Iran in un libro edito da Feltrinelli, Shah-in-Shah. L'impronta di Mohammed Reza è la stessa del padre e Kapuściński la racconta con parole e immagini che ricordano molto da vicino quelli scelti da Ella Maillart. La corruzione della famiglia reale, la ferocia della repressione, la concezione ridicola della regalità, la modernizzazione selvaggia: tutti gli aspetti deteriori della dinastia Pahlavi, notati da Maillart e confermati da Kapuściński, ricorrono tra il 1939 e il 1979, fino alla caduta della monarchia e all’avvento degli ayatollah guidati da Ruhollah Khomeini, leader magnetico, chiuso e severo, fondatore della repubblica islamica tuttora in vigore in Iran.