Dexter Gordon, (auto)biografia del gigante jazz

Musica

Dexter Gordon, (auto)biografia del gigante jazz

Il testo che il musicista e compositore non riuscì mai a completare, ripreso ed elaborato dalla moglie Maxine, è uno dei libri più profondi, sinceri e sorprendenti della letteratura contemporanea sul jazz.

 

Dexter Gordon è considerato uno dei massimi musicisti della storia del jazz. Virtuoso del sassofono tenore, può essere definito uno dei padri del bebop, e il suo percorso musicale, ormai quasi leggendario, è costellato di collaborazioni prestigiose, da Lionel Hampton a Charles Mingus, da Louis Armstrong a Dizzy Gillespie. Dopo gli esordi da giovanissimo con orchestre prestigiosi, dopo una fama rapida e travolgente, hanno fatto seguito lunghi anni di eccessi e oblio tra droghe, alcol e depressione; l'incontro con la futura moglie, la studiosa e organizzatrice Maxine, lo ha aiutato a risalire la china e a riemergere come musicista, compositore e persino attore: è l'unico jazzista che sia stato candidato all'Oscar come attore protagonista in Round Midnight - A mezzanotte circa diretto da Bertrand Tavernier.
È la stessa Maxine che rimette mano all'autobiografia di Dexter, fino ad arrivare a questo volume: è lui infatti il 'gigante sofisticato' del jazz, a partire dal titolo omonimo di uno dei suoi album più celebri. Il rapporto tra Dexter e Maxine ha inizio alla fine degli anni Settanta: giovane e brillante organizzatrice musicale newyorkese, Maxine viene infatti chiamata a rimettere in piedi una complicata tournée europea del grande sassofonista, già celebrità mondiale del jazz, ma da molti anni assente dalle scene americane a causa dei suoi problemi di droga. Prende così avvio una lunga collaborazione, che porterà alcuni anni dopo al matrimonio, e Maxine rimarrà a fianco del maestro fino alla sua morte, nel 1990. Sophisticated Giant è un grande lavoro di narrazione e documentazione che getta luce sulla storia di famiglia di Gordon, sugli inizi della carriera a Los Angeles con Hampton e Armstrong, sugli esordi come leader negli anni Quaranta, sul decennio “perduto” per i problemi di droga e le conseguenti detenzioni, sulla rinascita in Europa, sul ritorno in USA e sul culmine di popolarità grazie al cinema.

 

«All’improvviso sentii Dexter ululare e scoppiare in rauche risate mentre il telefono cominciava a squillare. Corsi in salotto e lui disse: “Te l’avevo detto!”. Io gridavo e piangevo, mentre lui rideva e annuiva con il capo. Poi disse: “Allora, cosa ti metti per gli Oscar?”».

Un estratto

Dexter Gordon era conosciuto come “Society Red” [traducibile con “Rosso d’alto bordo”; N.d.C.]. Quel soprannome gli fu affibbiato nel 1940, quando a diciassette anni suonava con la band di Lionel Hampton, più o meno nello stesso periodo in cui Malcolm X (che ancora si chiamava Malcolm Little) era soprannominato “Detroit Red”. Dexter compose un brano con questo titolo, e decenni dopo, quando iniziò a lavorare alla sua autobiografia, decise di intitolare il libro The Saga of Society Red. Il soprannome è doppiamente ironico, costituendo una precisa allusione ai tempi passati in cui i giovani neri si stiravano i capelli e giravano in zoot suit. Dexter aveva iniziato a scrivere la storia della sua vita nel 1987, dopo il gran rumore suscitato dalla sua candidatura all’Oscar per il ruolo da protagonista nel film Round Midnight [A mezzanotte circa]. Quando di questa storia non se ne parlava più, noi vivevamo a Cuernavaca, in Messico, dove lui suonava il sassofono in giardino, si rilassava disteso in piscina, e poi faceva due passi fino allo zócalo (la piazza principale). In quel periodo Dexter appuntava i suoi ricordi e pensieri su grandi blocchi di fogli gialli. La sua idea originaria era di scrivere il libro insieme a James Baldwin, ma Baldwin era malato e morì nel dicembre del 1987.
James Baldwin era una delle molte passioni che condividevamo. Dexter e io avevamo gli stessi suoi libri, amavamo parlare di Go Tell It on the Mountain, e ridevamo del fatto che ciascuno viaggiasse con la propria copia. Dexter conosceva Baldwin tanto bene da chiamarlo Jimmy. Io lo incontrai una volta sola, durante una festa ad Harlem, rimanendo senza parole per l’emozione, cosa abbastanza rara per me. Dexter scherzando mi disse che se fossi riuscita a riprendermi mi avrebbe presentato al grande scrittore. E mentre pronunciava queste parole, dall’altra parte della stanza Baldwin gli urlò: «Ehi Dex, ho letto sui giornali che eravamo espatriati. E io che pensavo che semplicemente vivessimo in Europa, e basta». Dexter scoppiò a ridere, poi attraversò la stanza a grandi passi e si chinò per abbracciare Baldwin, che sembrò sparire tra le sue braccia. «Pensavo che semplicemente vivessimo in Europa, e basta» – un’osservazione che non mi è più uscita di mente.
Gli anni vissuti da Dexter in Europa – dal 1962 al 1976 – sono considerati da molti appassionati, amici e critici come gli anni “perduti”. Rappresentano il periodo in cui lui sparì dalla scena statunitense, considerata da molti, e non solo allora, come l’unico vero centro del jazz, anzi come il centro del mondo e di qualsiasi cosa di interessante potesse mai accadere. Tuttavia Dexter ci teneva ad essere sempre al corrente di ciò che accadeva negli Stati Uniti, restando in più modi collegato al suo Paese natale. Come Baldwin, trovava buffo essere considerato in un certo senso come un outsider.
Quando mi presentò a Baldwin, cercai di fare la disinvolta. Non volevo mostrare quanto fossi emozionata. Anzi, volevo fare la vera newyorchese che non si lascia impressionare da niente e da nessuno, e per me Baldwin doveva restare solo uno dei tanti ospiti della festa. Ma Dexter disse che avevo le lacrime agli occhi e che sembrava stessi per svenire. La sua capacità di vedere al di là di ciò che ostentavo, e di farmi ridere dei miei vani tentativi, era qualcosa di particolarmente prezioso per me. Dexter sapeva fare questo: mostrava alle persone loro stesse in modo che si vedessero più chiaramente, e lo faceva sempre con spirito (a volte era uno spirito mordente, e ogni tanto girava il coltello nella piaga).
Dexter sapeva di avere una storia importante e che sarebbe stato molto interessante raccontarla. Era la sua storia, ma era anche la storia dei neri “espatriati”, la storia della cultura dei musicisti di jazz più creativi, la storia dell’amore per James Baldwin e per altri brillanti scrittori, la storia del modo in cui l’America accoglieva e allo stesso tempo respingeva persone di colore tra le più intelligenti e creative. Sapeva di avere da raccontare una storia non solo su se stesso ma anche sul proprio Paese.