I viaggi di Andrea Berrini

Saggi e narrazioni

I viaggi di Andrea Berrini

Le metropoli dell’Asia e un viaggio in Tanzania lungo vent’anni, i cambiamenti vertiginosi di grandi città sempre in movimento e gli incontri sui vagoni di terza classe di un paese africano, una novità e una riproposta.

 

Arrivano a settembre due libri di Andrea Berrini, scrittore, giornalista, editore e fondatore di CreSud, una società che da venticinque anni sostiene progetti di microcredito e lotta alla povertà nel Sud del mondo.

Si comincia il 16 settembre con Storie africane: quattordici capitoli per altrettante storie raccolte nel corso di due viaggi, uno del 1982 e uno del 2001. Berrini ha girato la Tanzania, da Tanga a Dar es Salaam fino alla frontiera con l’Uganda. I suoi racconti e le persone che li animano non hanno niente di epico o di estremo. Sono piuttosto riflessioni, descrizioni, pensieri di un viaggiatore che si accosta al paese senza la superiorità e l’autoconvincimento di molti occidentali, che affrontano l’Africa con buone intenzioni ma non riescono a vedere la realtà con gli occhi dell’Altro.

Proponiamo un estratto dal primo capitolo, intitolato “Tanga”. Si parla di spiriti che non ci sono più: «Gli spiriti, se vedono che la gente è moderna, che non crede più agli spiriti ma invece compra automobili e beve birra, se ne vanno. Gli spiriti, sai, non amano la luce elettrica».

 

Andrea Berrini, scrittore, editore e imprenditore, è autore di L’anima dei Bulldozer. Viaggio nella nuova baraccopoli africana (Baldini e Castoldi, 1996), Storie africane (EDT 2001, riproposto nella collana Ancore nel 2022) Noi siamo la classe operaia (Baldini Castoldi Dalai, 2004), Il romanzo del microcredito (Baldini Castoldi Dalai, 2008), Scrittori dalle metropoli (Iacobelli, 2017). La sua casa editrice si chiama Metropoli d’Asia e si occupa di narrativa asiatica contemporanea. Ha vissuto a lungo a Pechino, Bombay, Singapore. È il fondatore di CreSud, e si è occupato di microfinanza per venticinque anni.

Storie africane: Tanga

Tanga è il secondo porto della Tanzania, dopo Dar es Salaam. Fu l’amministrazione coloniale tedesca a decidere, un secolo fa, di valorizzare la cittadina, costruendo un tronco ferroviario che si spingeva su, verso nord-ovest, lungo il rilievo delle Pare e Usambara Mountains, fino a toccare le pendici del Kilimangiaro. Terre fertili coltivate in modo intensivo – caffè, canna da zucchero – così come le pianure alle spalle di Tanga, dove si trovavano alcune tra le più grandi piantagioni di sisal dell’Africa Orientale Tedesca. Nell’economia dell’intera area est-africana, il porto di Tanga aveva allora un’importanza maggiore di quanta non ne abbia oggi: da tempo, infatti, la linea ferroviaria è stata congiunta al tronco principale, quello che collega i grandi laghi Vittoria e Tanganica a Dar es Salaam. La rada di Dar è così diventata la destinazione delle merci provenienti dal Nord, benché il congestionamento del porto, che aspira da sempre a una collocazione di rilievo continentale, faccia ancora parlare della stessa Tanga come di un’alternativa. Ma i dock, le grandi gru di Dar es Salaam, le petroliere ormeggiate alla piattaforma al largo sono ancora solo un futuro possibile per il tranquillo porto di Tanga, dove le navi ancorano al centro della baia e vengono scaricate con lentezza su poche chiatte che attraccano a banchine di dimensioni ridotte. Eppure il golfo sembra avere naturalmente la vocazione a un ruolo di primo piano: la costa è alta, si affaccia sull’acqua a venti o trenta metri di altezza, e la scarpata che scende al mare è indice di acque fonde, anche se al centro della baia c’è una piccola isola bassa, coperta dalle mangrovie così come il lato opposto del golfo, su a nord, in lontananza.

La città si sviluppa due o trecento metri all’interno, le vie che s’intrecciano regolari intorno a un grande spiazzo occupato un tempo dal mercato, ora da uno stadio di calcio. Sul mare si affaccia così una sorta di terrazza sulla quale sorgono alcuni edifici isolati, tutti di una certa importanza, come la vecchia prefettura tedesca ora sede dell’amministrazione comunale, la caserma, o il grande albergo della città, che utilizza la terrazza come giardino per gli ospiti, con un baobab in primo piano rispetto alla splendida vista del golfo, splendida ed evocativa quando i grandi cargo colorati vi stazionano in attesa, nel silenzio.

Arretrata rispetto a questi edifici corre una strada – un viale alberato – che fa da asse di scorrimento e congiunge direttamente la pista per Pangani a quella che si snoda a nord lungo la costa, fino al confine con il Kenya. È questo viale a rendere famosa Tanga: si dice sia abitato dagli spiriti.

In città c’è un ufficio della Tanzania Tourist Corporation, agenzia turistica di stato. Ci vado subito, cerco informazioni sulle sorgenti sulfuree poco fuori città e sulle grotte di Amboni. Dopo qualche scambio di battute con un’impiegata, una ragazza nera con la solita camicetta bianca da scolaretta, butto lì la mia domanda: «Ci sono spiriti nelle grotte?».

La ragazza spalanca gli occhi, sorpresa. Si guarda un attimo intorno come per vedere se qualcuno ha sentito. Risponde ridacchiando: «Oh no, è da tanto che non ci sono più spiriti nelle grotte di Amboni».

«Non ci sono più?».

«Beh, sai com’è, ormai tutti vanno a scuola, e ormai tutti sono cristiani o musulmani. Nella Tanzania moderna non ci sono spiriti».

Ridacchia di nuovo e si guarda ancora intorno. Io insisto: «Allora c’erano qualche anno fa?».

«Oh», dice, «in passato era diverso, e anche la gente era diversa».

Poi cambia discorso, e si fa seria come una qualunque impiegata allo sportello. Non riesco più a riportarla sull’argomento, ogni volta che ci provo sorride. Arrossisce come se le stessi facendo la corte.

Arrivo alle grotte di Amboni con due ragazzi di Torino, lui e lei, molto interessati alle mie storie di spiriti. Ci raggiunge un giovane nero in bicicletta. Ha una casacca blu stinta che ricorda una divisa, dice di essere la guida. Si fa pagare in anticipo e ci fa entrare.

Le grotte sono tre o quattro antri in successione, vasti, dalle pareti lisce, illuminati da lampadine elettriche che il ragazzo ha acceso da un interruttore all’entrata. Non c’è traccia di aperture nella roccia che indichino un proseguimento. È tutto qui.

I due torinesi mi spingono a chiedere qualcosa al ragazzo, che parla solo swahili. E allora: «Ci sono spiriti nelle grotte?». «Hapana», è la risposta semplice e definitiva: no. Non ho altre domande.

Ci allontaniamo lungo un fiumiciattolo che si dice abitato da coccodrilli. Anche di questi non c’è traccia.

Tanga è città accogliente, i viali alberati, il mare da guardare. È facile trovare un baretto dove sedersi, bere un succo di frutta. È anche una città ricca: un tecnico scandinavo ci parla delle piantagioni di sisal, del clima favorevole, dei problemi legati alla conduzione burocratica delle aziende agricole di stato.

I torinesi mi piacciono, s’interessano al paese, viaggiano fuori dai circuiti turistici e sono le persone giuste da incontrare in una cittadina così. Parliamo un po’ di religioni tradizionali, del loro rapporto con cristianesimo e islam. Hanno per gli spiriti di Tanga un interesse preconcetto, un’idea molto europea di magia nera africana, stregoneria e feticci: l’Africa come luogo del mistero, faccia nascosta della nostra razionalità.

Io penso all’impiegata della Tanzania Tourist Corporation che rideva, alla guida di Amboni che concedeva così poco al mistero.

 

Ho avuto per amico, in Tanzania, il figlio ventenne di una personalità politica importante. Era venuto in Italia a studiare e me li ricordo, lui e un suo compagno, davanti al camino acceso di una casa di campagna.

Raccontavano, su nostra richiesta, di spiriti e cose del genere. Parlavano proprio di Tanga, e di questo viale che non avrebbero mai osato percorrere da soli, la notte. Cosa che anch’io mi sono ben guardato dal fare.

I due raccontavano con la massima serietà, prendendo le distanze dall’argomento solo a tratti, con qualche sorrisetto. Ma quando immaginavano un incontro con gli spiriti, quando cercavano di spiegarci la loro paura, allora scoppiavano a ridere, quasi con violenza. Era un riso nervoso: il riso per qualcosa che disorienta e attrae allo stesso tempo, qualcosa di cui non si può ammettere l’esistenza fino in fondo. Come ragazzini che parlano di sesso le prime volte, imbarazzati. Un riso non di sola allegria.

L’ultimo pomeriggio a Tanga. Ho un incontro al ministero della Cultura. Vorrei parlare di musica, di teatro, ma i due funzionari che mi stanno di fronte sono l’uno delegato provinciale allo sport, l’altro segretario di un’organizzazione giovanile, posto ottenuto grazie a una carriera nell’associazione calcistica regionale.

 

[…]

 

È in penombra, questa stanza. Le persiane sono accostate per tenere fuori il sole, e su un ripiano in un angolo, lontano da noi e dal tavolo centrale, è accesa una lampada, piccola, da comodino: non ha una funzione apparente. Siamo seduti nel silenzio, ma senza imbarazzo. Semplicemente non stiamo più parlando. Ho la tentazione di alzarmi, fare due passi verso quella lampadina, e spegnerla prima di congedarmi. Mi piacerebbe.

Invece comincia a parlare l’altro, il delegato provinciale: «Sai, Tanga ormai è una città moderna. Sono arrivate le automobili, le discoteche, la birra. La gente cambia modo di pensare e gli spiriti, che non amano queste cose, se ne vanno». Se ne vanno. E io posso restare: «Allora c’erano fino a qualche anno fa?». «Mah, ormai siamo gente moderna, non ci crediamo più. Quelle dei nostri padri erano superstizioni. E gli spiriti, se vedono che la gente è moderna, che non crede più agli spiriti ma invece compra automobili e beve birra, se ne vanno. Gli spiriti, sai, non amano la luce elettrica».