Questi francesi polemici e impenitenti...

Musica

Questi francesi polemici e impenitenti...

La ricezione dell'opera italiana in Francia è stata tutt'altro che immediata e anodina. Il nuovo libro della collana Risonanze, L'opera italiana in Francia nel Settecento, fa luce su questo rapporto non sempre facile. Per introdurre alla lettura, proponiamo un estratto dalla Prefazione del volume. In libreria dal 4 luglio.

 

Il presidente Charles de Brosses, intorno al 1740, scriveva al suo amico Jean-Louis de Maleteste:

Prima di tutto tocca a me ricusarvi come giudice incompetente: come sarà di ogni Francese che vorrà pronunciarsi sulla musica italiana senza averla ascoltata nella sua culla. I Francesi non possono sapere cosa può produrre a teatro Artaserse più di quanto gli Italiani siano in grado di sentire l’effetto di Armide.

In queste poche righe c’è tutta la specificità della Francia musicale del Settecento: la fierezza di possedere un repertorio operistico proprio – espressione di un’estetica specifica alla nazione e alla cultura teatrale francesi –, un gusto impenitente per la polemica, infine una totale ignoranza di cià che poteva essere una rappresentazione d’opera italiana. Questa frattura tra il sistema operistico francese e quello italiano risale allo choc culturale causato dalla decisione del cardinale Giulio Mazzarino di completare il paesaggio teatrale francese con l’introduzione di un nuovo genere fino allora ignoto ai Francesi: l’opera.

Fra il 1645 e il 1647, il cardinale, consigliato dal cantante Atto Melani e dal librettista Francesco Buti, allora residenti a Parigi, fa allestire La finta pazza di Giulio Strozzi e Francesco Sacrati, l’Egisto di Giovanni Faustini e Francesco Cavalli e l’Orfeo di Francesco Buti e Luigi Rossi; mentre nel 1660 per celebrare le nozze di Luigi XIV, invita a corte Cavalli, commissionandogli un’opera su libretto di Buti, Ercole amante. L’interesse di questa fase secentesca risiede nella definizione di un’estetica francese che, per la prima volta, inizia a riflettere sull’esistenza di un’azione teatrale interamente cantata. Negli anni Sessanta del secolo, infatti, il letterato Pierre Perrin critica – nella Lettre écrite à Monseigneur l’Archevêque de Turin (1661) e in una lettera teorica destinata a Jean-Baptiste Colbert – i fondamenti dell’opera italiana e definisce i caratteri dell’opera francese, intenzionalmente antitetici ai primi e paralleli al teatro di Pierre Corneille.

Il punto centrale dell’elaborazione di Perrin si fonda sull’affermazione che gli Italiani non sono riusciti a creare un vero e proprio teatro lirico, nel quale i due sistemi (musica e lingua) possono trovare un equilibrio reale. Quest’assenza di riflessione estetica da parte degli autori italiani porterà alla rottura drammaturgica tra recitativo e aria, creando una giustapposizione dei due sistemi e non una fusione coerente. Il nodo estetico, origine di queste considerazioni, è che, per gli autori francesi, la musica in sé non possiede nessuna possibilità comunicativa; può assumerla, diventando allora teatrale, solo se si conforma all’ordine linguistico. Per l’estetica francese l’opera italiana è quindi colpevole di mescolare il verosimile e il fantastico e di non saper gestire la sua vera ragione di essere in quanto oggetto drammatico: il rapporto tra lingua e musica. La creazione dell’Académie royale de musique nel 1669 costituisce poi un ulteriore elemento di scarto poiché il teatro d’opera è percepito come una vera e propria appendice della corte, luogo d’espressione privilegiato della cultura cortigiana e generatore di un processo d’identificazione culturale nazionale. Rispetto al teatro parlato, la valenza simbolica identificativa della scena operistica è amplificata dal fatto che il re autorizzi gli aristocratici a produrvisi pubblicamente come cantanti e ballerini.

Fare la storia dell’opera italiana in Francia, quindi, vuol dire prima di tutto spiegare un fenomeno di alterità estetica sia di produzione che di ricezione, generante un’esclusione di fatto di altri modelli drammaturgici.