Che farà di me la vecchiaia?

Nelle prime pagine di Invecchiare Elke Heidenreich delinea due scenari. Uno parla di una donna nata durante la seconda guerra mondiale nella Germania avviata verso la catastrofe, cresciuta in una famiglia non troppo affettuosa, con difficoltà negli studi e problemi di salute. Poi un matrimonio, un altro, un lavoro come giornalista ostacolato da un pessimo carattere, una malattia grave, infine la vecchiaia in una triste e decaduta città tedesca. Un fallimento su tutti i fronti.
L’altro scenario descrive una donna capace di sfruttare le occasioni che la vita le offre: gli studi, due matrimoni che pur non resistendo allo scorrere del tempo lasciano molto di buono, una relazione in età matura con un uomo molto più giovane, i successi professionali, gli amici, i soldi, una vecchiaia serena da trascorrere in un paese ricco e sicuro. Una vita meravigliosa.
Eidenreich è la donna che ha fallito, ed è anche la donna di successo: tutto sta nella percezione e nella scelta della narrazione. Superati gli ottant’anni non sa cosa le porterà il futuro, ma si consegna alla vecchiaia senza nascondersi, senza barare, certa che la vita degli anziani non si definisce per sottrazione ma conserva tutti i tratti della singolarità di ciascuno di noi.
Ho fatto della mia vita un fallimento completo.
Sono nata ancora in tempo di guerra, i miei genitori non erano persone amabili e io non ero una bambina amabile. Quando i conflitti si fecero insopportabili, andai a vivere con una famiglia affidataria in una canonica evangelica tanto fredda sentimentalmente quanto intellettuale, con discussioni a tavola su Heidegger e Habermas. Lezioni di piano, ripetizioni in matematica, esame di maturità. Studi universitari interrotti dopo sei semestri, lunga degenza in ospedale per operazione ai polmoni. I medici mi diedero cinque anni di vita. Ovvio, da anni fumavo una sigaretta dietro l’altra. Dopodiché un primo matrimonio troppo precoce, divorzio dopo pochi anni. Secondo matrimonio, dopo venticinque anni separazione, secondo divorzio quarantadue anni dopo il primo. Ospedale: cancro. Ovvio, una vita sbagliata. Lavoravo per la televisione, e la miglior trasmissione che abbia mai fatto – il programma sui libri “Leggere!” – finita male perché avevo definito la ZDF, il secondo canale nazionale, una ciurmaglia senza cultura, ero fuori. Trasloco a Colonia, che allora era una città eccitante e oggi è decaduta a provincia. Ora sono qui, ho ottant’anni e di notte non riesco a dormire e penso: fin quando si andrà ancora avanti così?
Ho avuto una vita incredibilmente meravigliosa.
Dei due anni di guerra all’inizio della mia vita mi è rimasto ben poco, e i miei genitori mi hanno voluto bene, anche se la ricostruzione della Germania e il loro matrimonio a pezzi si rivelarono un peso difficile da sopportare. Abbandonata a me stessa, stavo per perdermi in vizi pericolosi, quando il pastore che mi impartì la cresima intervenne e mi portò con sé a Bonn. Grande canonica, istruzione, libri, lezioni di piano, maturità, studi universitari. Superata una grave malattia, sposato un uomo affabile e intelligente, ma eravamo troppo giovani, siamo rimasti amici fino a oggi. Il mio secondo matrimonio è durato molto a lungo; dopo la separazione, convivenza con un musicista di grande talento, ma assai complicato, molto più giovane di me. Bel lavoro in televisione, guadagnato molto denaro, fatta la trasmissione di successo "Leggere!", interrotta alla fine per totale sfinimento. Bella casa, buoni amici, cane amorevole, nessuna preoccupazione, gli ottant’anni non sono un problema, e quando di notte sono a letto sveglia, sono grata per tutto, per una vita così lunga in un paese democratico senza guerra.
Ecco.
Ed ora di queste due versioni autobiografiche sceglietene per favore una.
Per completezza, ci sarebbe da aggiungere che io, per tutta la vita, ho fumato troppo, bevuto troppo e che ho guidato a velocità sconsiderata prima la motocicletta e poi l’auto, non ho mai davvero praticato uno sport, non sono portata alla fedeltà sessuale e quindi non ero particolarmente adatta al matrimonio. Ho scritto un gran numero di bestseller, per cui non ho alcuna preoccupazione economica, il che è davvero stupendo, e ora sto in una casa piena di libri e penso: è davvero una vita grandiosa.
Sì, e poi la vecchiaia. Ma come mai? Da quando? Da dove arriva all’improvviso? Perché?
Chiariamo subito una cosa: una donna che – come me – non è mai diventata madre (non ho voluto, un aborto quand’ero molto giovane), che quindi non dovrà o potrà mai essere nonna, che può e ha potuto sempre vivere una propria vita, invecchia naturalmente in modo diverso da qualcuno in un contesto familiare. È tutto un altro progetto di vita. E vite completamente diverse hanno anche una vecchiaia del tutto diversa. Le madri, da vecchie, hanno figli che eventualmente si occupano di loro, che le aiutano a livello finanziario e pratico. Io no. La mia infanzia è stata triste, i miei genitori erano infelici e fecero di me una bambina lagnosa e infelice. Per questo motivo seppi molto presto che io così non volevo diventare, una madre così oberata d’impegni, io non volevo avere figli – che probabilmente avrei di continuo preso a schiaffi, come io venivo di continuo presa a schiaffi. Qualcosa dentro di me ha escluso molto presto e in maniera molto radicale l’idea di farmi una famiglia propria. La parola che – più di malattia, infelicità, separazione – mi ha sempre fatto più paura è la parola dipendenza. Non sono mai stata dipendente da qualche partner. Ho sempre provveduto a me stessa e lo farò fino alla fine, se sarà necessario con una badante a pagamento, possibilmente a casa mia. Quindi: nessuna rete di sicurezza famigliare, io non ho una famiglia, e il mio partner, ventotto anni meno di me, è un artista fuori dalla realtà del mondo, inadatto a diventare un badante. Questa la situazione.
Che farà ora di me la vecchiaia?
Non ne ho idea. So solo che io mi consegno a essa, non la nego, non provo a sembrare più giovane di quella che sono. E non trovo affatto che la vita da anziani abbia minor valore.