Il Gran Palazzo di Bangkok
Ben pochi, riconosce Alex Kerr, definirebbero Bangkok bella: la modernizzazione ha portato con sé cemento, lamiere e cavi elettrici un po' ovunque. C'è tuttavia nella capitale thailandese un elemento di «autentica, entusiasmante bellezza»: è il Gran Palazzo che sorge in fondo al Sanam Luang, il "campo reale", l'enorme spazio pubblico che quanto a effetto drammatico non ha niente da invidiare alla Piazza Rossa o a Tienanmen, e rispetto a esse ha molto più fascino.
C'è chi dice che il Gran Palazzo sia eccessivo in tutto, nelle decorazioni, nelle statue, negli intarsi in ceramica, nell'oro che si trova ovunque. Una curiosità per turistipiù che un capolavoro artistico o architettonico. Eppure secondo Kerr è proprio negli apparenti cliché che risiede l'autentica meraviglia. L'estratto che segue illustra le tradizioni e le forme culturali cui è ispirato il Gran Palazzo, sorto nel XIX secolo e già anacronistico, «l'ultima grande impresa architettonica realizzata qualndo gli antichi ideali asiatici erano ancora intatti».
Nell’ambito dei siti di interesse storico il Gran Palazzo è piuttosto giovane, dal momento che è stato costruito in gran parte nel XIX secolo. È privo della struttura cosmica della Città Proibita di Pechino, dotata di un asse centrale e ampi cortili; si presenta invece come un caotico e multiforme insieme di costruzioni, erette in base al capriccio dei sovrani che si sono susseguiti. In linea con l’essenza indistinta e antistorica di Bangkok, il Gran Palazzo non si è sviluppato secondo un progetto umano, ma in maniera per così dire naturale, come una foresta.
Alcune persone raccontano di pensieri vorticosi che non le lasciano dormire, di cinema mentale. Nella mia testa domina il vuoto.
Prima che venisse fondata Bangkok, la capitale dell’Impero siamese dal XIV secolo in poi era stata Ayutthaya, che nel momento di maggior splendore era tra le città più grandi al mondo, ricca di palazzi e pagode dorate. Il saccheggio da parte dei birmani nel 1767 fu vissuto come un gravissimo colpo alla psiche collettiva e dopo alcuni tumultuosi decenni, quando una nuova linea dinastica di sovrani ricostituì l’Impero siamese a Bangkok, la nuova città venne modellata come una copia della gloriosa capitale perduta. L’abitato e il palazzo erano una sorta di gigantesco sospiro di nostalgia verso un mitologico passato.
La stessa Ayutthaya d’altronde richiamava alla memoria l’Impero khmer di Angkor, con l’apporto di elementi dal Laos, dalla Cina e addirittura dalla lontana Persia, perciò quando i sovrani di Bangkok si misero a costruire, attinsero a un vasto vocabolario di forme culturali.
Le alte torri a forma di sigaro denominate prang (il monte Meru, simbolico centro del mondo, sormontato dal tridente di Indra) sono una derivazione delle torri di Angkor. I curvilinei chofa, che svettano dalle estremità sporgenti e dalle travi dei tetti, sono giunti sin qui con le tribù animiste thailandesi scese dalla Cina attraverso le valli fluviali.
I chofa sono estremamente antichi, risalgono a un’epoca in cui la gente credeva ai nāga, le mitologiche creature dalla forma serpentina, divinità celesti e terrestri. È probabile che gli svettanti aggetti dei tetti del Sud-est asiatico siano con il tempo migrati verso nord, trasformandosi nelle tipiche coperture curvilinee cinesi. A un certo punto, in Cina, le linee dei tetti hanno cominciato a incurvarsi, e sembra che questo fenomeno abbia avuto origine nel Sud animista.
Più si sale verso il Nord della Cina, infatti, più i tetti sono dritti, come quelli della Città Proibita, con la sua struttura austera e solenne. Spingendosi invece a sud, oltre lo Yangtze, il Fiume Azzurro, si fanno sempre più stravaganti e, nell’estremo meridione, nell’elevarsi si contorcono come riccioli di zucchero filato, ornati con così tanta roba che non si riesce quasi a capire dove inizino e dove finiscano.
Il potere di questi tetti mi affascina da quando andai a Bangkok per la prima volta nel 1975, da studente, e feci il pellegrinaggio a casa di John Blofeld. Forse la sua “teoria del tabù” era corretta: proprio perché questi tetti distolgono lo sguardo dalla terra e lo volgono al cielo sono in seguito riusciti a fare piazza pulita di tutto ciò che c’era prima in Cina, Corea e Giappone. A un livello profondo soddisfano un desiderio che arde nella mente degli uomini e che li porta ad amare i minareti, gli obelischi e i grattacieli. La genialità di quelle estremità rivolte verso l’alto è che trasforma qualsiasi tetto in dita che puntano al cielo.
All’apice dello splendore, con i suoi templi reali, i chofa e i prang, Ayutthaya era il modello di una città divina. Dopo la sua distruzione il glorioso ricordo è sopravvissuto in forma di splendente ideale della grandezza siamese, e per questo la nuova città reale di Bangkok doveva imitare per quanto possibile quella più antica; nel costruirla si è dunque scavato un canale a oriente del fiume per ricreare la forma ovale dell’isola di Ayutthaya, e si è edificato il Gran Palazzo con un regio tempio al suo interno e il cosiddetto “Palazzo di Fronte” accanto. I templi sono stati battezzati con nomi che ricordassero Ayutthaya, come il Wat Mahathat, il Tempio della Sacra Reliquia. Intorno al regio tempio si elevano i bai sema, pietre a forma di foglie che nei tempi antichi delimitavano le aree sacre. La forma della foglia viene ripresa anche nelle merlature delle mura perimetrali del palazzo stesso.
Ciò che è stato costruito a Bangkok contiene un profluvio di riferimenti culturali che sarebbe difficile trovare in quasi qualsiasi altra struttura al mondo: le pitture murali ispirate al poema epico indiano Rāmāyana, le finestre a punta persiane, le linee del tetto tipiche delle antiche tribù thailandesi del Nord, le torri e le divinità indù di Angkor, i motivi ispirati alle “maschere demoniache” di Giava, i guardiani e i bonsai in pietra cinesi, gli stupa dello Sri Lanka, le porte trapezoidali di Ayutthaya; e poi troni a forma di barca, demoni e angeli provenienti da ogni dove. Il Gran Palazzo è uno spropositato scrigno ricolmo delle tradizioni accumulate nell’Estremo Oriente.
Ed è sorto appena in tempo. Alla fine del XIX secolo, quando Rāma V gli stava dando i tocchi finali, la spinta alla modernizzazione guidata dall’Occidente lo aveva già reso anacronistico. Il complesso del palazzo di Bangkok è l’ultima grande impresa architettonica realizzata quando gli antichi ideali asiatici erano ancora intatti.
La stessa Ayutthaya d’altronde richiamava alla memoria l’Impero khmer di Angkor, con l’apporto di elementi dal Laos, dalla Cina e addirittura dalla lontana Persia, perciò quando i sovrani di Bangkok si misero a costruire, attinsero a un vasto vocabolario di forme culturali.