Quella certa Roma di Pier Luigi Pizzi

Saggi e narrazioni

Quella certa Roma di Pier Luigi Pizzi

Un estratto dal capitolo 8 di Non si può mai stare tranquilli. Siamo nei tardi anni Cinquanta, Pier Luigi Pizzi si è trasferito a Roma per seguire la propria vocazione, su cui fonderà una carriera straordinaria di regista, scenografo e costumista, divisa tra prosa, opera e cinema. Dopo alcuni ricordi su Umberto Tirelli l’autore analizza vivacemente un particolare modo di recitare.

Pier Luigi Pizzi, dopo una formazione d’architetto, inizia ventenne il suo lavoro di scenografo e costumista nei più importanti teatri e festival del mondo. Nel 1977 debutta come regista per assumere la totale responsabilità degli spettacoli che mette in scena. Ha dedicato l’intero percorso professionale al mestiere del teatro, alternando anche progetti architettonici per musei e mostre d’arte e numerose presenze sui set cinematografici e televisivi. È tuttora in attività.

Non si può mai stare tranquilli. Estratto dal capitolo 8

Intanto, tra una risata e l’altra, mi impegnavo a mettere da parte i soldi per avere finalmente una casa mia. Ci riuscii nel 1959. Svenandomi, comprai un appartamento in via del Babuino 51, all’ultimo piano di palazzo Cerasi: le più belle terrazze che potessi sognare. Era già perfettamente abitabile, perché prima di me ci aveva vissuto Gaio Visconti, padre dell’amica Verde, e per un paio d’anni l’ho tenuto com’era. In seguito decisi di adattarlo al mio modo di vivere iniziando una serie di lavori che sono durati qualche mese.

Accettai l’ospitalità temporanea di Umberto Tirelli, che divideva con Piero Tosi un simpatico studio in via degli Avignonesi. A Umberto mi legava una solida amicizia. Era diventato direttore della Safas, la più blasonata e prestigiosa sartoria teatrale romana. Nella sede di via Margutta troneggiavano le due sorelle proprietarie, la baronessa Cappa Bava e Gitta Roux, grandi signore. Non era facile farsi accettare, ma una volta superato l’esame di buone maniere diventavano adorabili. Umberto era arrivato come semplice fattorino, ma col talento, la dedizione instancabile, la competenza acquisita e l’energia inesauribile, si era in poco tempo guadagnato la stima delle patronnes.

La Safas era stata fin dall’inizio della mia carriera la sartoria di riferimento e Umberto un collaboratore imprescindibile, oltre che complice e amico. Per questo ero felice di andare ospite da lui per qualche settimana; oltretutto c’era Tosi, con cui avevo un’ottima intesa. Con loro non mi sarei annoiato.

Umberto era speciale: mattiniero, ogni giorno appena sveglio si attaccava al telefono e buttava giù dal letto amici e col- laboratori. Immancabile la telefonata quotidiana alla madre, la signora Dirce di Gualtieri, cui impartiva a suo modo lezioni di bon ton. Sordo lui, sorda lei, urlava all’apparecchio perché la madre lo sentisse.

Ricordo una telefonata che lasciò me e Piero piegati in due dal ridere. Dirce doveva mandare dei fiori a una giovane coppia di sposi: «Cosa mandi? Mami! Cooo? Garofani? Sei matta! Maaami! Noooo! Garofani noooooo! As pasa par cafoni! Gigliiiiii, hai capito? Gigli e tuberoseeeee! Tu-be-ro-seeee!».

Orgoglioso del suo lavoro, non tollerava critiche. Quando portò alla Fenice i costumi disegnati da Giacomo Manzù per Tristano e Isotta, si trovò di fronte ad una scena drammatica. La cantante wagneriana aveva provato il costume e non si era piaciuta, l’aveva sfilato e ci era montata sopra con i piedi, calpestandolo e imprecando insulti incomprensibili contro Umberto, che non sapeva una parola di tedesco.

Per fermare quella furia urlò con quanto fiato aveva in gola: «Parlez-vous français, madame?». «Oui» rispose lei. «E allora bastaaaaaaa!».

Così era Umberto Tirelli, surreale, ma sapeva farsi intendere.

A lavori finiti tornai a casa, la mia casa amatissima dove ho vissuto per più di vent’anni, fino al mio trasferimento a Parigi. Negli anni Sessanta e Settanta a Roma la vita teatrale era molto intensa, con grandi prime nelle sale più importanti e alcune esperienze insolite, come quelle offerte dalla compagnia D’Origlia-Palmi. Ci fu un periodo in cui i loro spettacoli erano considerati di culto. Ci si andava la domenica pomeriggio, in uno scantinato polveroso sempre affollatissimo in Borgo Santo Spirito, nei pressi del Vaticano. La signora Bianca D’Origlia stava alla cassa a vendere i biglietti fino al “chi è di scena”, con un vecchio abito nero senza tempo. Poi si buttava addosso un mantello sdrucito di velluto rosso, una reticella d’oro sui capelli, e diventava la regina Gertrude, oppure un soggolo bianco sul capo con velo nero per trasformarsi in badessa per i tanti drammi sulle vite delle sante, interpretate con eroico fuoco sacro dalla figlia Anna Maria Palmi: Rita da Cascia, Teresa di Lisieux, Rosa da Lima, Maria Goretti. In alternativa era anche Ofelia, Giulietta e Pamela nubile. Invece il decrepito Emmanuel Palmi passava con disinvoltura da Romeo ad Amleto, senza farsi intimidire dall’età, sempre in calzamaglia nera sulle lunghe gambe striminzite e in testa improbabili parrucchini spelacchiati come topi morti, a coprire la calvizie.

Si piazzava sull’ingombrante cassa del suggeritore, in continuo dialogo con lui, chiedendo spudoratamente la battuta nei frequenti vuoti di memoria o quando si infilava in monologhi di cui perdeva il filo senza poterne uscire. Carmelo Bene ne andava pazzo, come Paolo Poli: entrambi presero senza limiti ispirazione da loro. Arbasino arrivò a considerarli il maggior esempio di teatro italiano del Novecento. Secondo me era una sorta di sublime “Accademia del Birignao”.

Il birignao è un’impostazione vocale artificiosa basata su innaturali suoni nasali e sull’alterazione di alcune consonanti, molto in uso tra gli attori del primo Novecento, che conside- ravano questa forzatura un abbellimento della dizione. Per esempio la “ci” che diventa “ciui” e la “esse” che diventa “este”.

Ricordo di aver chiesto a una vecchia signora del teatro, Gina Sammarco, che fu una indimenticabile contessa Polaki in Sesso debole di Bourdet con la compagnia dei Giovani, il laconico verdetto su un giovane attore: «Diciue bèeene». Pro- mosso, sans plus. Dunque a un attore bastava una dizione corretta? Meglio distinguersi con un po’ di birignao. «Mi facciua il piaciuere!». Vittorio Gassman, grandissimo attore, l’ultimo Mattatore, “nasalizzava” e di regola non raddoppiava le con- sonanti, Laura Adani non diceva mai «Sì», ma «Stì». La figlia del grande Ermete Zacconi, Ernes, mi spiegò così l’importanza che il padre dava alla pronuncia: «Ste papà stentiva una este, che non era una este, andava stu tutte le furie!».

Sua sorella, Margherita Bagni, prima moglie di Renzo Ricci e madre di Nora, aveva anche lei il suo bel birignao. Un giorno, durante una prova in uno studio televisivo, ci stupì raccontandoci un sogno fatto la notte prima che l’aveva sconvolta. Era stata visitata da una bella signora velata che le offriva protezione e affetto. «Chi stei?» aveva gridato commossa Margherita. «Ma come, non mi riconosci? Hai dato il mio nome alla tua bambina!». «La Stignora Duze!» riuscì a proferire tra le lacrime e i singhiozzi. Si dovette perdere molto tempo a consolarla.

Un attore che si rispetti deve avere una bella dizione. Oggi nessuno ci bada più, e si è perso l’uso del birignao. Così succede spesso che molte battute siano buttate via. Ma il “biri” è durato a lungo.