La prima maratoneta

Le Olimpiadi moderne sono uno dei frutti del clima di sconfinata fiducia nel progresso e nella scienza che regnava incontrastato alla fine dell’Ottocento, quando l’Europa, agli occhi dei contemporanei, sembrava avviata verso un secolo di pace e prosperità universali. Secondo il barone Pierre de Coubertin, patrono dei Giochi, lo sport avrebbe contribuito alle fortune del mondo al pari delle grandi invenzioni ottocentesche, come le ferrovie e il telefono, che avevano rivoluzionato le comunicazioni e le relazioni fra esseri umani. Quanto ingenua e infondata fosse questa visione del mondo sarebbe emerso meno di vent’anni dopo, allo scoppio della Prima guerra mondiale. Nel 1896, tuttavia, in molti pensavano davvero di vivere una sorta di età dorata, preludio a tempi ancora migliori.
Uno dei pilastri di questa narrazione era la mascolinità, la virilità che, non più coltivata ed espressa attraverso conflitti di vasta portata – l’Ottocento europeo, dopo la caduta di Napoleone, è stato un secolo di stabile e duratura pace, con poche e circoscritte guerre – doveva trovare altre forme per esprimersi, tra cui lo sport. Le donne erano relegate a un ruolo da comprimarie, e alle lotte femministe che in quegli anni si facevano sempre più diffuse e tenaci il patriarcato rispondeva arroccandosi a difesa dei propri privilegi.
Le Olimpiadi, naturalmente, non concedevano alle donne alcuno spazio che non fosse decorativo. La loro partecipazione ai Giochi era vietata in tutte le discipline del programma, figurarsi in quella più dura ed evocativa, la maratona. Le donne, secondo de Coubertin, avrebbero dovuto limitarsi a sorridere e a premiare i vincitori. Eppure, una donna corse la maratona delle Olimpiadi di Atene 1896. L’estratto che segue, proveniente dall’Introduzione a Velocissime di Maggie Mertens, racconta la sua storia.
Le donne sono sempre state capaci di correre, ma per secoli gli uomini hanno cercato di convincerci che non possiamo farlo. Nei primi Giochi olimpici moderni, una gara in particolare incarnava la virilità: la maratona. La corsa di 42,195 chilometri non faceva originariamente parte degli antichi Giochi olimpici, ma era comunque una sorta di tributo alla mascolinità degli antichi greci. La maratona prende il nome dall’episodio del soldato ateniese che, dopo la battaglia di Maratona, sarebbe tornato ad Atene di corsa per annunciare: «Abbiamo vinto!», dopo che l’esercito ateniese aveva sconfitto gli invasori persiani, un punto di svolta nelle guerre persiane che contribuirono all’ascesa della civiltà greca classica. Secondo alcune testimonianze, quest’uomo morì di stanchezza appena fatto l’annuncio. Tale era la difficoltà della corsa di 40 chilometri da Maratona ad Atene. Quale modo migliore per onorare i greci classici se non questo: essenzialmente la rievocazione di una storia di guerra. Un’impresa di virilità, se mai ce n’è stata una.
Poi, una donna chiese di iscriversi.
Nota come Stamáta Revíthi, era una povera madre sola, una donna tormentata. Nelle settimane precedenti la maratona aveva camminato fino ad Atene dal Pireo con il suo bambino di 17 mesi, alla ricerca di una vita migliore per sé e per il figlio. Un viaggiatore sullo stesso percorso le chiese perché stesse facendo tanta strada, a piedi, con il suo bambino in braccio. «Che mezzo potrei prendere? Non ho soldi», fu la sua risposta. Quando il viaggiatore le diede del denaro, le suggerì anche di provare a partecipare all’imminente maratona. Forse lo intendeva come un modo per guadagnare soldi, diventare famosa o semplicemente perché Revíthi sembrava in grado di correre, a giudicare dalla sua camminata lungo un tragitto di 10 chilometri con in braccio un bambino.
Quando, alla fine del XIX secolo, il barone francese Pierre de Coubertin volle far rivivere i moderni Giochi olimpici, ne inquadrò la necessità come un modo per migliorare il mondo, per promuovere la pace universale. «È chiaro che il telegrafo, le ferrovie, il telefono, la ricerca scientifica appassionata, i congressi e le esposizioni hanno fatto più per la pace di qualsiasi trattato o accordo diplomatico», disse de Coubertin in un discorso del 1892. «Ebbene, spero che l’atletica faccia ancora di più. Chi ha visto 30.000 persone correre sotto la pioggia per assistere a una partita di calcio capirà che io non sto esagerando». De Coubertin voleva costruire un mondo migliore attraverso lo sport.
Ma questo mondo migliore e più pacifico non includeva le donne. Non nella parte sportiva, perlomeno. De Coubertin desiderava ripristinare i Giochi olimpici «per la solenne e periodica esaltazione dell’atletismo maschile […] con l’applauso delle donne come ricompensa». In seguito, come presidente del primo Comitato olimpico internazionale, ribadì l’idea del (mancato) posto delle donne nei Giochi: «Le donne hanno un solo compito, quello di incoronare il vincitore con ghirlande […] nelle competizioni pubbliche, la partecipazione femminile dev’essere assolutamente proibita. È indecente che gli spettatori debbano essere esposti al rischio di vedere il corpo di una donna stroncato sotto i loro occhi. Inoltre, per quanto una sportiva possa essere temprata, il suo organismo non è tagliato per sopportare certi shock».
Inutile dire che quando si svolsero i primi Giochi moderni, in Grecia nel 1896, non c’erano atlete. Le donne, come de Coubertin amava sottolineare, non avevano partecipato ai Giochi olimpici originari. Alle donne era vietato persino entrare nello stadio come spettatrici. I partecipanti a quei Giochi antichi erano nudi, per evitare che le donne potessero anche solo tentare di camuffarsi e di intrufolarsi.
Gli storici hanno trovato prove del fatto che le donne dell’antica Grecia tenevano giochi separati in onore di Era, moglie di Zeus, in cui tre gruppi di giovani donne di età diversa gareggiavano nella corsa, ma questo non era importante per de Coubertin.
Negli anni Novanta del XIX secolo, dimostrare la prestanza fisica maschile attraverso lo sport piaceva a uomini come de Coubertin perché, secondo loro, l’idea stessa di “mascolinità” e di ciò che significava essere un uomo era in quel momento minacciata. In tutta l’Europa e in Occidente le donne stavano iniziando a organizzarsi per ottenere maggiori diritti, il voto, il potere politico, il diritto all’istruzione e a svolgere i lavori che, per tradizione, erano riservati agli uomini. Nella stessa epoca, un’organizzazione simile stava avvenendo negli Stati Uniti, dove i neri liberati dalla schiavitù chiedevano a gran voce maggiori diritti, in seguito alla Guerra civile e alla Ricostruzione. In breve: quello che molti uomini (bianchi) vedevano come “ordine naturale” – uomini bianchi in cima, donne e tutti gli altri in fondo – veniva messo in discussione. Naturalmente, in assenza di guerre di massa (dato che de Coubertin voleva più pace), lo sport era il palcoscenico perfetto su cui esibire la propria mascolinità e riaffermare il dominio fisico.
Quando la storia di Stamáta Revíthi fu raccontata, molti anni dopo, da Athanasios Tarasouleas, uno storico delle Olimpiadi che mise insieme una narrazione dai resoconti dei giornali dell’epoca, la descrisse come una donna bionda, forte e con «ossa grosse e occhi grandi e intelligenti». Racconta che quando lei venne a sapere della maratona, la vide come l’unica opzione per cercare di dare una svolta alla propria vita.
La sera prima della corsa, Stamáta si unì ad alcuni uomini in una locanda del villaggio di Maratona, dove i corridori parlavano con la stampa. Tarasouleas riferisce che lei disse con certezza ai giornalisti presenti che avrebbe corso l’intera distanza e impiegato 3 ore e mezzo o forse anche meno. «Ho visto in sogno che avevo un grembiule pieno d’oro e di confetti dorati! Chissà! Ci metterò l’anima, immagino che i miei piedi reggeranno», disse.
Revíthi insistette sul fatto che essere povera e rimanere spesso senza cibo l’avrebbero aiutata a resistere. «Per tante notti sono rimasta a digiuno mentre allattavo mio figlio! Non avevo pane da mangiare».
Il Comitato olimpico, tuttavia, cercò di convincere Stamáta che un gruppo di donne avrebbe corso la gara la settimana successiva, quindi avrebbe dovuto aspettare. Fece come le era stato detto e non si unì agli uomini la mattina seguente. Ma ben presto si rese conto di essere stata ingannata: non c’erano altre donne in gara. Così, il giorno seguente, alle otto, Stamáta arrivò alla linea di partenza da sola. Scrisse l’orario in cui partiva su un foglio e chiese al maestro della scuola, al sindaco e al magistrato di firmarlo per convalidare l’ora di partenza.
Revíthi raccolse la sua lunga gonna bianca e la rimboccò in vita per liberare un po’ le gambe. Le scarpe molto consumate non resistettero per tutto il percorso, quindi a metà strada se le tolse. Cinque ore e mezzo più tardi arrivò, «sudata e coperta di polvere», al traguardo di Atene. Chiese ad alcuni poliziotti nelle vicinanze di firmare il suo documento, che attestava la durata della sua maratona e dimostrava che l’aveva corsa.
Nonostante Tarasouleas scriva con l’ausilio dei resoconti dei giornali greci sulla «famosa donna della maratona», la storia di Stamáta Revíthi è raccontata più come un mito greco che come la cronaca di un’atleta dell’epoca che infranse una barriera. È soffusa da un’aura mitica, magica. Il suo nome non corrisponde nemmeno in tutti i resoconti: alcuni si riferiscono a lei non come Stamáta Revíthi ma come Melpomene, il nome di una famosa musa della mitologia greca.
Non ci sono fotografie ad accompagnare l’articolo di Tarasouleas, anche se i Giochi erano stati fotografati. C’è invece uno schizzo di come poteva apparire Revíthi, con una lunga gonna fluente e i capelli raccolti all’indietro sulla nuca. Il disegno non sembra troppo diverso da come venivano rappresentate le antiche donne greche nei miti.